COSI' MI NUTRE LO SPIRITO

SCRIVENDO FAVOLE, POESIE E ANIMANDO BURATTINI

C'era una volta...



HANAFY, IL FARAONE E IL MISTERO DI ISIDE

 

La piramide è ormai ultimata. Ogni giorno per trent’anni ne aveva seguito i lavori senza mai pensare che quando sarebbe stata compiuta, avrebbe provato un senso di solitudine e di inutilità tanto forte da fargli quasi desiderare di distruggerla per poterla ricostruire.

La più grande opera fatta dall'uomo è ora lì, maestosa, davanti ai suoi occhi.

Le migliaia di operai che avevano dedicato la vita per realizzarla non riempiono più la piana con il loro vociare: adesso fra le dune di sabbia si ode solo il sibilare del vento.

Il cocchiere quasi trattiene il respiro per non infastidire il Faraone che sul carro, immobile, è immerso in pensieri che gli rabbuiano il volto.

Gli viene in mente quando ancora giovane, dopo aver condotto i suoi eserciti all’ennesima vittoria e sbaragliato tutti i nemici, progettò quell'opera che nei millenni futuri sarebbe stata erroneamente giudicata solo il monumento funebre ad un Re-Dio e non anche un simbolo per il suo popolo, quale voleva fosse.

Pensa al giorno in cui radunò ai piedi delle mura del suo palazzo tutti i capi famiglia della sua gente per dire loro che l’epoca delle guerre era terminata e che anziché l’odio per un nemico comune, un’opera di pace li avrebbe uniti. Un’opera che sarebbe stata tanto più grandiosa quanto più faticosamente realizzata per ricordare che è il sacrificio comune ad unire gli uomini.

Prevede il giorno in cui i saggi del futuro si chiederanno come gli egizi abbiano potuto trasportare blocchi di pietra di quelle dimensioni a quell’altezza e per un attimo sorride immaginandoli parlare a vanvera del lavoro dei suoi uomini come di schiavi.

Quella piramide è lì a ricordare il sacrificio del suo popolo ma anche a rammentargli che lui un giorno vi sarà sepolto ed affidato ad Osiride. S'interroga se per allora sarà finalmente riuscito a scoprire ciò che da decenni ricerca invano, il senso vero della sua vita. I sacerdoti gli hanno svelato i misteri del passato e i vati predetto il futuro ma nessuno di loro è ancora riuscito a parlare al suo animo.

 

  Ogni giorno che passa si chiude sempre di più in se stesso e dispera ormai di scoprire la ragione della sua esistenza.

Il nitrito di un cavallo lo distoglie dai suoi cupi pensieri; fa cenno al cocchiere di riportarlo al palazzo mentre il sole, più dorato che mai, sta sparendo all’orizzonte, sul Nilo. Quella sera però la luce del tramonto non lo rapisce come al solito.

Senza scambiare parola con alcuno si ritira nelle sue stanze e di lì a poco, quando il buio cala repentino, si corica e si addormenta ripercorrendo gli anni passati che egli giudica inutilmente spesi.

Si sveglia alle prime luci dell’alba ed un sogno è ancora nitido davanti ai suoi occhi.

Iside gli è apparsa e gli ha detto: “In un unico segno è racchiuso ciò che cerchi. Lo troverai in cielo, nell’acqua, nell’aria, sulla terra, nel fuoco, nei minerali, nelle piante, negli animali: lì scoprirai il senso della vita. In un unico segno, ricorda, in un unico segno."

Chiama lo scriba e gli detta le parole della dea prima che possa dimenticarle. Nella cera, su quella tavoletta, è ora tracciato il compito affidatogli da Iside: scoprire in un unico segno il senso della vita.

Per sette anni porta sempre con sé quella tavoletta e trascorre ogni giorno molte ore seduto ai piedi delle dune del deserto, su di un’ansa del Nilo, sotto le stelle, angosciato per la vana ricerca.

La sua età è ormai avanzata e la speranza che lo ha sorretto nei primi anni dopo quel sogno, lo ha ormai abbandonato. Si trascina ogni giorno dal palazzo fin sulla riva del Nilo e da qui ritorna solo a notte fonda, quando i suoi occhi non riescono più a restare aperti a contemplare le stelle. Il suo animo è sempre più cupo, precaria la salute, poco riescono a fare i  medici per alleviargli le sofferenze.

Un giorno una piccola feluca approda alla riva dove è solito sedere.  Un bambino gli chiede di reggere la cima del canapo mentre raccoglie la vela e trascina l’imbarcazione a terra. Il Faraone, distolto dai suoi pensieri, si rallegra nel vedere quel bambino così piccolo ma già così deciso ed abile nei movimenti. Gli chiede il nome senza svelargli il suo, giacché il bambino non lo ha riconosciuto.

Hanafy, così si chiama il piccolo, dopo aver trascinato la feluca a riva, si siede e incomincia a fare un sacco di domande al Faraone che gli risponde con pazienza e divertimento. Ma quando il bambino, incuriosito, raccoglie da terra la tavoletta di Iside, il Faraone, rabbuiato, gliela strappa di mano lasciandolo sgomento.

Egli si pente presto del suo gesto: accarezza i capelli di Hanafy  e gli sorride per farsi perdonare. Anche Hanafy sorride e da quel momento i due diventano amici come un nonno ed un nipote possono esserlo.

Al tramonto, ogni giorno, al solito posto, lì dove un’ansa del fiume è più ampia di altre, il bambino aspetta il Faraone che solo raramente manca all’appuntamento. Per mesi i due si ritrovano per pescare insieme, giocare, contemplare il cielo.

Un giorno Hanafy domanda al suo amico chi egli sia ma il Faraone non si svela e, temendo di perdere quella spontanea amicizia,  mente sulla sua identità.

Un po’ alla volta il buon umore torna a fare capolino nel suo animo e presto egli smette di arrovellarsi nei pensieri e nella ricerca del segno della vita non è più per lui così importante.

Si ritrova invece, nel corso della giornata, a progettare giochi nuovi da fare al tramonto con Hanafy e non vede l’ora di andare al fiume per poter finalmente lasciare i fregi del potere e ritornare ad essere se stesso, un vecchio bambino.

 

 Hanafy si meraviglia di tutto: delle onde che increspano l’acqua del fiume, del flettersi delle canne al vento, della sinuosità della coda di un pesce, delle volute di una fiamma, del dolce dosso di una duna. Ma una cosa in particolare lo affascina: quella specie di pulviscolo bianco che in cielo pare avvolgere le stelle, come per riunirle e trasportale altrove. Hanafy non ha la minima idea di cosa sia quella scia bianca ma una notte, dopo ore di contemplazione della volta celeste all’improvviso esclama: “E’ il Nilo: sembrano le anse del nostro fiume quelle che avvolgono e accarezzano le stelle”.

Udendo le poetiche parole del bambino, il Faraone si commuove. Una gioia mai provata inonda il suo petto tanto da togliergli il respiro. Due lacrime solcano il suo viso rugoso mentre gli sovvengono le parole di Hanafy quando, meravigliato, andava scoprendo le onde che increspano l’acqua, il flettersi delle canne al vento, la sinuosità della coda di un pesce, le volute di una fiamma, il dolce dosso di una duna.

Alla fine della sua esistenza è un bambino a fargli scoprire il segreto celato nelle parole di Iside. Finalmente ora sa qual è il senso della sua vita: quello celato in una linea curva,  una dolce curva che a volte s'inarca e a volte si flette. Il segreto di Iside è lì davanti a lui: in cielo come in terra il mistero celato sono linee curve presenti in ogni opera del creato ad indicare  a chi sa scoprirlo la via dell’adattamento, per aiutarlo a comprendere che il senso della vita è comprendere cosa sia la tolleranza.

Alla morte del Faraone, Hanafy scopre chi era il suo amico; di notte, prima che la piramide sia chiusa per sempre, illuminato dalle stelle del Nilo celeste, entra furtivamente nella camera del sarcofago e su di esso incide in un bianco cartiglio il segno della vita, un geroglifico a forma d'ansa del fiume, perché al suo risveglio nella prossima esistenza, il suo vecchio amico possa ricordarsene.

 

F I N E


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